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venerdì 6 aprile 2018

Fratelli d’Italia, fischi contro l’identità collettiva

Fratelli d’Italia, non solo inno va recuperata l’identità collettiva
Fratelli d'Italia Inno Mameli nazionale Silvana Calabrese Blog
Chi si occupa di etica ritiene che abbiamo raggiunto uno stadio avanzato di individualismo ed egoismo. Di conseguenza l’espressione «Fratelli d’Italia» si è ridotta a parola d’uso, priva di significatività. Questo non giustifica i fischi contro l’Inno di Mameli, un episodio che qualche settimana fa ha allibito il presidente del Senato Schifani e turbato la cantante Arisa che con lo sguardo esterrefatto a portato a termine l’inno. L’esecuzione dell’inno nazionale dovrebbe essere un momento di unione solidale e non di sconvolgente inciviltà. Cosa ci è accaduto? Prima ne ignoravamo il testo e ora lo accogliamo con dei fischi, segno evidente che il senso delle parole non ci ha lambiti. Il nostro problema è l’aver smarrito memoria e identità collettiva, due elementi che affondano le radici in una materia che non ci piace: la storia. «Il canto degli italiani» o Inno di Mameli fu scritto da Goffredo Mameli, poeta e patriota italiano, nel 1847. Fu composto nel periodo del Risorgimento e ne divenne il simbolo. Ci troviamo nel contesto rivoluzionario che condusse alla conquista dell’indipendenza politica e dell’unificazione dell’Italia che doveva letteralmente risorgere. Durante le Cinque giornate di Milano, nel 1848, ciò che animò gli insorti durante i durissimi combattimenti per l’indipendenza fu proprio l’inno. «Dell’elmo di Scipio s’è cinta la testa» è un richiamo alla romanità simboleggiata dall’elmo dell’eroico generale romano Publio Cornelio Scipione, detto l’Africano. «Dov’è la vittoria? Le porga la chioma, che schiava di Roma Iddio la creò» fa riferimento all’uso di tagliare i capelli alle schiave e in senso figurato a chi, vittorioso, si consacra alla capitale. «Stringiamoci a coorte, siam pronti alla morte» esprime il senso del sacrificio della propria vita per la patria, all’interno della coorte, la legione dell’esercito romano. L’inno che cantiamo non è completo: c’è una parte che potrebbe innescare una carica propulsiva nel nostro orgoglio: «Noi siamo da secoli calpesti e derisi, perché non siam popolo, perché siam divisi». È vero, fummo apostrofati dall’austriaco Metternich come «espressione geografica». La nostra reputazione odierna non è migliorata, quindi «Raccolgaci un’unica bandiera, una speme; di fonderci insieme già l’ora sonò».
Se il percorso storico è troppo ripido, affidiamoci alle parole di G. V. Paolozzi: «lo sport è sinonimo di civiltà perché non esalta la violenza ma la forza sana e non divide i popoli ma li affratella». 
 Da “La Gazzetta del Mezzogiorno”, 28 giugno 2012, p. 30.

giovedì 28 dicembre 2017

L’Inter, sofferenza continua per giungere alla vittoria

Un cantico per l’Inter
Inter: cantico o coccodrillo? Nel 2003 composi un breve testo intitolato «Semplicemente Inter»: «Inter, Inter, è quella squadra che fa soffrire chi la tifa, è la squadra dei colpi di scena, in grado anche di battere i campioni d’Italia o i temibili rosso-neri e magari perdere contro la Samp (alludevo al 7° Trofeo Birra Moretti disputato l’8 agosto 2003 e al Trofeo Tim). Ma dal 1908 ha saputo raccogliere migliaia di tifosi e giocare partite memorabili. Ha dovuto subire la perdita di alcuni grandi campioni guardando sempre avanti. Aspettiamo con ansia l’atteso scudetto nero-azzurro, forza Inter». Proviamo col cantico, un componimento poetico-lirico dal contenuto civile e accantoniamo per un momento l’idea del coccodrillo, un tipo di articolo che si pubblica in caso di scomparsa di un personaggio famoso.
Inter squadra calcio Silvana Calabrese - Blog
Cominciamo dai colori: il nero perché il destino è ignoto, l’azzurro perché la grandezza del cielo elimina confini e dubbi per chiunque abbia voglia di sognare. È il 9 marzo 1908 quando da una «fuga dal Milan», prende vita l’Internazionale o …semplicemente Inter.
 Nata sotto il segno dei pesci, è sensibile e vulnerabile e risente delle influenze dell’ambiente che la circonda. Lo zodiaco le attribuisce grandi energie che però non sempre riesce a incanalare correttamente a causa della sua natura incerta e diffidente che le impedisce di raggiungere nell’immediato i risultati ambiti. Un’indole paziente permette ai nati nel segno di sopportare le sofferenze. Ma vi è un simbolo del segno che rompe le convenzioni: la capacità di effettuare rapidi cambiamenti di rotta o finali a sorpresa, totalmente insperati.
Talvolta interpellare gli astri serve a farsi una ragione di ciò che accade, ma esistevano già degli indizi validi. L’inno ufficiale, «C’è solo l’Inter» recita parole chiare: «cosa c’è di meglio di una continua sofferenza per arrivare alla vittoria». Ancora più esplicito è il messaggio di «Pazza Inter», una canzone cantata nel 2003 dagli stessi giocatori negli studi della RTL 102.5: «Non fateci soffrire, ma va bene vinceremo insieme, amala! Pazza Inter amala!». È evidente che tifare per l’Inter implichi il compromesso della sofferenza, prendere o lasciare. 
Da “La Gazzetta del Mezzogiorno”, 11 maggio 2011, p. 24. 

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mercoledì 14 settembre 2016

Il calcio femminile non imiti il calcio maschile

La battuta di Belloli ci porta indietro di un paio di secoli
Ricordate l’infelice battuta del Ministro dell’Economia e delle Finanze Tommaso Padoa-Schioppa sui bamboccioni? Era il 2007 e fece un gran clamore mediatico che lese la sensibilità oltre che la dignità di una fascia generazionale dai 18 ai 34 anni. L’Italia è fatta di remake e nuovi adattamenti. Oggi tocca al Belloli sollevare cenere e lapilli. Felice Belloli in qualità di presidente della Lega Nazionale Dilettanti scarica una saetta contro il calcio femminile, apostrofandolo come il calcio delle «quattro lesbiche». Ed è subito polemica aspra. L’espressione lessicale poco colta investe l’intera società facendola retrocedere di un paio di secoli. Dal progresso al regresso in un nanosecondo. È una sferzata allo sport inteso come precursore di buona salute. È un richiamo alla discriminazione sessuale che vede il calcio appannaggio esclusivo degli uomini. Le origini delle pratiche sportive si perdono nella notte dei tempi. Erano una prerogativa maschile e di chi aveva il dono di una buona costituzione. Col tempo le cose sono cambiate e l’attività fisica ha accolto persone gracili, donne, bambini e disabili perché essa ha il pregio di rinvigorire il corpo e lo spirito.
Silvana Calabrese Blog La scorribanda legale Calcio in rosa
Analizzando il contemporaneo è innegabile l’affetto profondo che ci lega esclusivamente al calcio maschile i cui campionati ci radunano in poltrona o negli stadi. Per godere di maggiore rispetto il calcio in rosa dovrebbe imporsi e proporsi in maniera diversa. Alla società italiana non serve un doppione calcistico. Le squadre di calcio femminile devono mostrare a un’intera nazione il loro carattere di unicità divenendo un esempio di civiltà. In campo non si sputa e le risse con le giocatrici avversarie o con l’arbitro vanno evitate, lo fanno già gli uomini! Pierre de Coubertin (1863-1937), pedagogista, storico francese e fondatore dei moderni giochi olimpici pronunciò una massima «L’importante non è vincere ma partecipare». Intendeva dire che è fondamentale impegnarsi a fondo e disputare un buon incontro, ma con l’obiettivo di divertirsi e non con l’impulso di annientare l’avversario. Vincere è indubbiamente gratificante, ma non rappresenta lo scopo. È richiesta moderazione e umiltà nelle esaltazioni così come nelle sconfitte.
Il calcio femminile non è come lo si vuole fare apparire nelle pagine di cronaca sportiva, in cui si dimostra maturità nella sconfitta e sobrietà nella vittoria. Educazione, rispetto per il prossimo, diplomazia, sana aggregazione, accettazione serena della sconfitta o della retrocessione sono i cardini sui quali edificare il calcio in rosa affinché si sviluppi in parallelo rispetto a quello maschile, ma senza imitarlo. 
Da “La Gazzetta del Mezzogiorno”, 3 giugno 2015, p. 24.

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venerdì 16 gennaio 2015

La Nazionale specchio di una nazione viziata

Un brutto ricordo che appartiene al 2014
Ho giocato a calcio per anni, ma non ho mai scritto nulla su questo «nobile sport» forse perché si è dimostrato raro tale accostamento lessicale. Il gioco del calcio è metafora di vita: la vittoria rende tutto semplice, ma è la sconfitta che rivela chi siamo.
L’Italia dei mondiali 2014 ha palesato una certa arroganza fin dal ritiro: Prandelli sembrava artefice di una formula infallibile poiché aveva allenato gli azzurri abituandoli a condizioni climatiche affini a quelle brasiliane e affidato loro una dieta ricca di sali minerali per evitare crampi muscolari; Balotelli in conferenza stampa con falsa modestia dichiarava di non voler essere considerato una star anche se in qualità di punta è lui che decide le sorti del match. La prima vittoria non ha fatto che incrementare il livello di superbia schiacciando quell’umiltà che tanto si reclama e poco si mette in pratica. Sentivano di aver vinto ancor prima di entrare in campo contro il Costa Rica, squadra che asseriva di conoscere l’Italia come il palmo della mano avendone studiato ogni partita e che tuttavia si sentiva onorata di affrontare un match impegnativo e non vincente in partenza. La nazionale ha manifestato la sua vera indole: poco gioco di squadra e troppe verticalizzazioni ad un Balotelli sul filo del fuorigioco, pronto a calciare nello specchio piuttosto che a muoversi. Al termine dell’incontro il CT affermò che non ci si aspettava una squadra tanto aggressiva. Una dichiarazione che si commenta da sola! Ci siamo illusi di vedere un’Italia diversa con l’Uruguay. La precedente sconfitta nulla ha insegnato agli idoli d’Italia. Un gioco spesso sleale con ripetuti sgambetti sulla fascia laterale e profondi palpeggiamenti in fase di marcatura. Poi il morso di Suarez a Chiellini… preliminari!? Quel calcio che da sempre unisce ed infuoca i tifosi si è reso ridicolo e in un mare di delusione ciascuno spettatore dice quel che pensa. Per essere ben pagati hanno sempre musi lunghi; si gioca per divertirsi e il gioco non è un vero lavoro! I calciatori spendono troppo tempo a girare spot pubblicitari che ad allenarsi duramente. Poco coesi e sportivi hanno disonorato una professione straordinaria in un periodo di dilagante disoccupazione. Si passa ad accusare l’intero sistema calcistico che investe in stranieri e non in scuole calcio per allevare promesse nostrane. Si additano gli stadi privi di ammodernamenti: le famiglie dovrebbero poterci trascorrere intere giornate in relax ed armonia, ma mancano adeguate strutture presenti invece all’estero. Esecrabile è stata considerata la location dei mondiali in un Brasile denso di indigenza e sfarzo. Tutto il risentimento che gli italiani provavano per il calcio è emerso con la prorompenza di un’eruzione vulcanica. Pare che la nazionale abbia rispecchiato la situazione mentale e strutturale del paese che rappresenta. Ma anche la tifoseria fa parte di questo marchingegno: siamo pronti ad esternare un amore viscerale verso chi vince ed è popolare, ma basta una sconfitta per ignorare gli idoli di una vita. Il vero tifoso conforta la propria squadra soprattutto nei momenti critici. È semplice coerenza.
Da “La Gazzetta del Mezzogiorno”, 3 luglio 2014, p. 24.

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