Una
testimonianza sul perpetuo marciume universitario
Fin dalle
prime agitazioni dei ricercatori universitari contro il Decreto Gelmini, voci
all’unisono affermavano la possibilità della privatizzazione delle Università. I
tagli alla ricerca e l’incremento delle tasse avrebbero reso l’Università
pubblica un ente privato. Con questo assunto facevano dell’apologia al proprio
scioperare (creando roghi con i loro curricula) ed invitavano i laureandi ad aderire
all’agitazione, a costo di perdere un semestre. Alla stregua di una
divulgazione mediatica, l’idea della privatizzazione si è insinuata in ogni
dipendente accademico. Ma si tace una scomoda verità di cui posso parlare solo
ora che ho conseguito, da infiltrata speciale, un dottorato presso l’Ateneo
barese. Esso funziona da tempo o da sempre come un organismo privato.
Negli
enti pubblici la selezione avviene per concorso di cui si pubblica il bando
sulla Gazzetta Ufficiale. I candidati si sottopongono ad una valutazione
oggettiva per titoli, pubblicazioni ed esame concorsuale. L’idoneità al
superamento del concorso dovrebbe fare rima con meritocrazia, ma esistono altre
subdole leggi a governare le assunzioni. L’attitudine alla ricerca non sembra essere
individuata in sede di selezione. Una volta entrata nell’organico mi è bastato
osservare strani atteggiamenti per comprendere che c’era più d’una mela marcia
nel cesto. Mi sono ritrovata invischiata in vorticosi giochi di potere (di cui
possiedo regolari registrazioni e documentazioni). La mia collega era tra i
favoriti per aver svolto un lavoro di tesi con la docente (in realtà con una
sua collaboratrice), ma in tre anni il suo presunto potenziale non ha dato
cenni di vita. Ha intascato una cospicua somma di denaro per un lavoro non
presentato entro i tempi stabiliti. La progenie del capo aveva condotto un
dottorato con una docente ordinaria amica di famiglia. E per proseguire con i
riferimenti incrociati, nel mio corso c’era la figlia di un’altra ordinaria che
oltre a vantare un’amicizia col capo, è inserita nel collegio dei docenti. Meno
male che ai figli tocca il cognome paterno che evita sospettose omonimie. La
ricerca si basa sull’individuazione di progetti inediti e originali, ma pur
lavorando in totale autonomia, viene impedito di pubblicare il lavoro svolto e
le minacce che accompagnano tale diniego sono spesso incontrollate. C’è
eleganza nei portamenti di questi baroni che san schiamazzare e rovesciare
bottigliette d’acqua in sede di conseguimento del titolo al cospetto di una
commissione esterna. Tutto ruota attorno al potere da mantenere e accrescere a
discapito di meritocrazia e coerenza. Spesso capita che un buon progetto,
indispensabile a terminare il dottorato, venga bramato dal coordinatore che
vorrebbe esibirlo come proprio durante un convegno cercando di gabbare il
dottorando cui occorre un progetto che arrivi vergine alla dissertazione
finale. Forse nel loro grande disegno, ancor prima di indire un concorso che di
pubblico ha solo il nome, hanno già in mente i vincitori. Ma di cosa parlo? Un
vecchio adagio popolare sostiene che i concorsi siano scusanti per assumere
raccomandati. La Gelmini non può privatizzare ciò che è già privato.
Da “La
Gazzetta del Mezzogiorno”, 25 maggio 2015, p. 12.
Della sezione "Università" fanno parte anche:
- Cantami o Diva l'Università senza studenti ;
- La rivolta delle Università e il diritto allo studio ;
- Università di Bari in pericolo. Chiudere o estirpare le erbacce? ;
- La lunga attesa per ricevere la pergamena di laurea ;
- Quelle prediche inutili nel giorno di San Silvestro ;
- Il mio omaggio alla vittima delle baronie universitarie Norman Zarcone ;
- L'Università di Bari fa acqua da tutte la parti (video) ;
- Università, sul numero chiuso pesano ancora visioni miopi ;
- Puro illusionismo all'Università degli Studi di Bari ;
- Al clochard nel Palazzo Ateneo la presenza si può negar? .
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