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domenica 28 maggio 2017

Tu non sei un gadget

Recensione: Jaron Lanier, Tu non sei un gadget, Mondadori, Milano 2010, pp. 267.
Direttamente dalla California, il pioniere nonché guru della realtà virtuale, Jaron Lanier, analizza dettagliatamente l’impatto sociale della tecnologia digitale. E per farlo, accantona la nozione di digital divide, ampiamente impiegata ma mai compresa a fondo. Quello che definiamo “divario digitale” e che si traduce nella mancanza di accesso alle tecnologie informatiche con relativa mancata fruizione dei servizi che queste consentono, non deve essere associato soltanto ai Paesi in via di sviluppo. La disparità digitale appartiene anche alle nazioni più evolute e scaturisce da alcuni fattori: il livello di conoscenza circa il funzionamento del personal computer; la padronanza dell’inglese di cui pc e web sono intrisi; una fascia di reddito tale da permettere un primo accesso al web o una continuità nelle connessioni.
Lanier Tu non sei un gadget
L’autore dimostra la sua coerenza intellettuale e professionale. Pur avendo un’enorme considerazione verso il mondo della multimedialità, pur essendo un internauta per eccellenza, consapevole che la tecnologia digitale è il suo lavoro, esorta i lettori a difendere la propria vita reale dalla realtà virtuale.
Non viene negata la comodità derivante dai supporti tecnologici, sia dal punto di vista personale che in ambito medico, ma può essere negato il nostro bene più importante, la capacità di fare esperienza. Potrebbero franare i confini della libertà individuale. Lo dimostrano ipotesi utopiche o forse semplicemente avveniristiche in merito all’abolizione della circolazione delle banconote a vantaggio dell’utilizzo esclusivo di carte di credito. Che accadrebbe in caso di problemi come quelli che Baudrillard fa rientrare nel novero dell’«ironia della tecnica»? Il vantaggio può ricondursi ad una diminuzione/scomparsa dell’economia sommersa. Lo svantaggio subentra se una carta si blocca o se viene rifiutata e le banconote non fossero più in circolazione.
Numerose sono state fino ad oggi le conferenze che hanno affrontato il tema della attuale compresenza di testate giornalistiche sia on-line che in edicola, ma pare che si tratti di una sperimentazione, della volontà di indurci a consultare i quotidiani più rapidamente da casa con l’ausilio del mouse. L’opera riassume questo ragionamento in un assunto: «qualunque oggetto abbia un surrogato elettronico, va incontro a irrimediabile svalutazione».
Il web ci si sta ritorcendo contro e con la sua falsa familiarità distoglie la nostra attenzione dalla direzione verso cui sta procedendo. Le informazioni stanno perdendo la loro qualità, si frantumano in parole che a loro volta vengono sminuzzate in termini chiave per i motori di ricerca generando un universo di schegge di pensiero anonimo e disarticolato, ma anche un insieme di concetti talmente rimaneggiati da essere equivocati.
Il primo inganno del web 2.0 è che intende promuovere una libertà radicale all’insegna dell’interazione, ma ne depaupera quella fra le persone.
Lanier osserva come la nozione di file venga insegnata agli studenti di informatica al pari di un fenomeno naturale e teme per quello che potrebbe accadere alla definizione di essere umano, dato che la persona astratta sta già oscurando la persona reale. Un altro timore si riconduce alla noosfera, l’idea che da tutti gli utenti del Web emerga una coscienza collettiva a scapito dell’individualità. A suffragare questa intuizione è la storia del bue al mercato, esemplificativa del concetto di «saggezza della folla»: un gruppo di persone stima il peso dell’animale e la media delle varie stime è di solito più vicina al vero rispetto a quella espressa dai singoli. 
Le tematiche affrontate conducono ad una diramazione tra reale e non reale e a questo proposito è stata recuperata una definizione: «Ciò che rende reale una cosa è l’impossibilità di rappresentarla nella sua totalità. Un’immagine digitale di un dipinto a olio rimarrà sempre una rappresentazione, non un oggetto reale. Un dipinto reale è un mistero insondabile. Un dipinto a olio cambia col tempo; la sua superficie si crepa. Ha una tessitura, un odore, emana una sensazione di presenza e di storia».

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