Recensione: Francesco Bellino, Per un’etica della comunicazione, Bruno Mondadori, Milano 2010, pp.
216.
Ispirato da Don Chisciotte, personaggio che per antonomasia filtra la realtà
attraverso l’atmosfera fantastica dei romanzi cavallereschi, Francesco Bellino
ci conduce attraverso la metamorfosi del mondo dell’immagine spiegandoci come
l’uomo moderno sia ormai immerso nel virtuale.
L’assunto cartesiano «la verità è il frutto dell’evidenza» aiuta a
comprendere che la verità deriva dalla certezza psicologica del vedere, ma
attualmente l’immagine ha preso il posto del mondo. Tendiamo ad accettare
l’immagine del mondo trasmessa dal medium televisivo senza interrogarci su come
esso, il mondo circostante, sia realmente. Solo un pubblico colto è in grado di
processare le informazioni, mentre uno impreparato le subisce o non le
recepisce affatto.
V’è una finezza nel titolo ed è espressa dal «per» che sta ad indicare il
tentativo di legittimare la possibilità di un’etica della comunicazione.
Significa che non diamo per scontate ed acquisite la possibilità e l’esistenza
di tale etica che non riguarda soltanto contenuti e processi di comunicazione,
ma anche le politiche di divulgazione, la proprietà e il controllo dei media.
L’autore cita De Kerckhove con la legge della realtà decrescente, che
decresce fino a svanire del tutto, inoltre riporta la definizione data da Noam
Chomsky dei filtri attraverso cui passano le notizie.
L’inflazione televisiva produce un sovraccarico sensoriale che a sua volta
espone ad una desensibilizzazione unita a una drastica contrazione della nostra
capacità di scegliere, riconoscere, valutare, discernere, effettuare esperienze
dirette. La comodità offerta dai mezzi di comunicazione di massa, e più
recentemente dal web, viene fraintesa per libertà. Essa è illusoria poiché
effetto di un immaginario illusorio. Bellino illustra uno scenario che si è
inesorabilmente evoluto fino ad avanzare l’ipotesi della «scomparsa
dell’infanzia» ai danni degli spettatori più giovani.
Numerose teorie, osservazioni e note critiche esposte dall’autore, conducono
ad un approdo, la formulazione dei postulati che la comunicazione deve
possedere ed attuare per dirsi etica: libertà, reciprocità e verità.
L’informazione deve essere vettore di quest’ultimo elemento perché se al tempo
degli scambi epistolari mentendo si ingannava una sola persona, con i mass
media si inganna il mondo intero.
L’opera si presenta complessa ed articolata, tratta tematiche attuali con
radici storico-filosofiche, tuttavia la lettura risulta lineare e l’attenzione
del lettore sembra non essere destinata a subire inflessioni, registrando il
suo picco al cospetto di un monito: una corretta comunicazione può veicolare
anche contenuti non etici.
L’iter sugli aspetti e sugli effetti della comunicazione di massa
prosegue addentrandosi nelle forme applicative della deontologia professionale
dei comunicatori. Ciò avviene perché è opportuno avere una visione chiara dei
principi di legge che regolano le professioni legate all’informazione. Di
particolare interesse è la dialettica generata dalla rilettura dell’art. 21
della Costituzione della Repubblica italiana. Sancisce la libertà di
manifestare il pensiero ma, come ravvisa anche la sentenza decalogo del 1984,
entro il limite del buon costume il cui senso è mutato dal 1948, anno in cui la
stampa era il maggior mezzo di comunicazione.
Si giunge alla falsa familiarità del web 2.0 e delle connessioni
ventiquattro ore su ventiquattro che sembrano volerci privare della solitudine
con la promessa che qualcuno sarà sempre virtualmente presente. È sorta una
specie di vita on-line che provoca una dipendenza totalizzante dallo stato di
connessione e il solo timore di non essere connessi determina un senso di
profonda debilitazione. Uno sguardo pronto a cogliere i disagi che si celano
dietro un comportamento tipicamente conformista, induce a ritenere che il
bisogno di una presenza assidua sulle piattaforme virtuali potrebbe derivare da
un problema paradossale: esserci, nel mondo, riuscendo a sentirlo. Connettersi sarebbe
dunque un tentativo di esserci lasciando una traccia del proprio passaggio.
Intuendo queste profonde problematiche identitarie, Per un’etica della
comunicazione propone un allenamento costante a saper cogliere l’aura di
ciò che ci circonda, a cercare di espandere la dimensione della coscienza
comprendendone lo spessore. Se velocità e frenesia hanno minato la nostra
coscienza, allora è opportuno riscoprire le origini della comunicazione,
attraverso il silenzio, la parola e l’ascolto. La lettura può rivelarsi un buon
metodo per realizzare l’obiettivo di ampliare la coscienza e acquisire
consapevolezza della dimensione interiore. Perché la lettura è lo spazio del
silenzio, l’esperienza del pensiero, la ricerca del senso.
La recensione è apparsa su
«La Vallisa», Quadrimestrale di
letteratura ed altro, anno XXIX, N. 88–89, Besa Editrice, Nardò (LE) 2011, pp.
174–175.
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