Il
buon vecchio italiano nasce in Toscana e lì muore
Roberto
Benigni ha illustrato i dieci comandamenti in maniera ragguardevole, ma ha
violato l’undicesimo precetto «Parla secondo corretta sintassi affinché il tuo
italiano sia gradevole all’udito». Temo che non vi sia un solo italiano in
tutta la penisola ad essersi accorto di due errori commessi dall’attore. «A Dio
gli piace» e «il popolo c’ha o c’aveva». Queste formule sgrammaticate hanno una
copertura territoriale totale ormai. Ma che anche il Benigni, fiorentino, ne
sia stato contagiato mi ha fatto restar male. Il buon vecchio italiano è nato
in Toscana e lì muore. Dovevamo immaginare che i progressi compiuti avrebbero
presto incontrato una pesante recessione culturale.
Nel primo caso
si tratta di un uso pleonastico dei pronomi personali con valenza di
complemento di termine (rispondono alla domanda a chi?): mi, ti, gli, le, ci,
vi, li, le. Significano rispettivamente a me, a te, a lui, a lei, a noi, a voi,
a loro (m e f). Dire «A Dio gli piace» non è corretto perché il gli significa a Lui e il Lui è già indicato. Esistono due forme
corrette «A Dio piace» o «Gli piace». Nel quotidiano si ode spesso «Glielo hai
detto a lei?», errore! Due alternative giuste sono «Lo hai detto a lei?» oppure
«Glielo hai detto?».
Una volta ho
assegnato un tema a un bambino di seconda elementare (figlio di laureati). Ho
avvertito dei brividi nel leggere «Bob ciaveva un amico». Non formulai
pregiudizi, ma lessi i temi di bambini di ogni età scoprendo che tutti
scrivevano allo stesso modo. L’ausiliare che un tempo si coniugava io ho, tu
hai, egli ha, noi abbiamo, voi avete, essi hanno, ora viene sostituito da io
c’ho, tu c’hai, egli c’ha, noi c’abbiamo, voi c’avete, essi c’hanno. Dallo
scaricatore di porti all’insigne professore, tutti usano la nuova coniugazione
verbale. Lo abbiamo probabilmente udito da qualche idolatrato attore o
calciatore ed assimilato passivamente perché ormai le nostre sinapsi sono ai
minimi storici.
Qualche pezzo
grosso in Rai ha affermato di voler perseguire un ritorno alla lingua standard
che sia corretta perché il servizio pubblico deve riuscire a garantire un
livello linguistico di qualità. Ma non dovrebbe essere un proposito, bensì una
realtà stabile. Se pago il canone di abbonamento sento il dovere di pretendere
una qualità linguistica che testimoni cultura. Non mi sento dotta ad aver
scritto queste righe di disappunto perché l’italiano può aprirsi a neologismi,
ma non mutare la sua struttura o permettere che venga corrosa. A me non mi
piace questo italiano, c’ho proprio i nervi!
Da “La
Gazzetta del Mezzogiorno”, 29 dicembre 2015, p. 16.
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