La notizia
della tua scomparsa, l’11 febbraio 2012, mi ha fatto avvertire un gran vuoto.
Prima d’ora non mi era capitato. Non udiremo più dal vivo quella tua voce
capace di trapassare l’anima spazzando via ogni pensiero opprimente. Quando una
grande stella si spegne iniziano a propagarsi gli interrogativi, ma per te sono
cominciati molto prima. Depressione, droga.
È un bene che
qualcuno ancora creda nel matrimonio, ma se la vita coniugale non dona più la
felicità iniziale, perché prendersela. Non attribuiamo troppo potere agli
uomini, si sa che spesso non meritano la donna che sta al loro fianco. Se
invece il problema è l’anzianità incombente, quella che fa sfiorire la
bellezza, allora i grandi artisti dovrebbero leggere il «De senectute» di
Cicerone, scoprendo così che l’ingresso nell’età senile equivale alla
possibilità di raccontare se stessi con l’aura del saggio. Se perfino io a 25
anni credevo, con presunzione, di avere un quarto di secolo da raccontare, tu
potevi aspettare il mezzo secolo. A differenza di alcuni alberi, noi non
possiamo essere sempreverdi.
Ho ascoltato
più volte l’inno degli Stati Uniti (The star–spangled banner), da te cantato al
Super Bowl nel 1991. Che incanto. Il mio grande sogno da appassionata di USA
era di intonare quelle note con te. Ovviamente si sarebbe trattato di un
qualcosa di ridicolo per smorzare la tensione che anticipa la disputa di una
competizione sportiva. Infatti il Super Bowl è l’incontro che assegna il titolo
di campione della National Football League (NFL), la lega professionistica
statunitense di football americano. Eppure basterebbe ripensare alle prime parole
dell’inno nazionale «Oh, say can you see, by the dawn’s early light»: «Oh, dì
ciò che puoi vedere alle prime luci dell’alba». L’alba è simile al tramonto,
illumina il cielo in un modo seducente agli occhi dello spettatore. Avresti
potuto assaporare il successo che ti sei duramente guadagnata. Avresti potuto
ricevere un’ispirazione. Avresti potuto. Addio, mia cara Whitney Houston.
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