Quando si
transita o si permane nel mondo accademico è come entrare a far parte di una
nuova famiglia, la famiglia culturale. E quando muore un fratello culturale non
si può restare indifferenti. Norman Zarcone era mio fratello.
Le circostanze
del suo trapasso, da suicida lanciandosi dal settimo piano della Facoltà di
Lettere e Filosofia dell’Università di Palermo, gettano nuova luce sul sordido mondo delle baronie universitarie. Aveva 27 anni ed era il 13.9.2010, tre mesi
dopo avrebbe concluso un Dottorato di Ricerca senza borsa di studio che
equivale a fare ricerca per pura passione e spirito di abnegazione.
L’affermazione del Rettore ha dell’assurdo: egli nega l’evidenza di un nesso tra
suicidio e parentopoli. I docenti gli avevano detto che non ci sarebbe stato un
futuro per lui in Ateneo. È vero, gli accademici di qualunque ordine e grado
hanno l’abitudine di proferire queste testuali parole anche quando non sono
interrogati in merito. E il modo in cui lo dicono emana sadismo e non
dispiacere. C’è crisi e mancano i concorsi, eppure il sistema baronale è più vigoroso che mai. Così questi signori ricoprono il ruolo di «demotivatori
istituzionali». Il gesto estremo di Norman è l’espressione di rabbia contro chi
ruba il futuro ai giovani capaci e meritevoli, ma è una rabbia rassegnata
perché la sua dipartita rischia di essere vana. I baroni e coloro i quali
voltano il capo, per non guardare un sistema purulento, sono anch’essi
meritevoli: meritano di essere importunati (legittimamente) per le loro colpe.
Ogni giorno si deve ricordare loro che alimentano una grave infezione che ha
incancrenito la società.
Eppure le
parole dei professori inducono a maturare nuove riflessioni. Non c’è futuro con
un Dottorato (che ricordiamo essere il livello più alto degli studi
universitari se conseguito con merito), ma mille promesse professionali
aleggiano sugli onerosi master. Economicamente gravosi per gli studenti, ma utili
a incamerare utili per i docenti! Cerchiamo di essere seri: esistono
opportunità lavorative o no?
Al padre
Claudio, affranto per il disinteresse riservatogli, rivolgo una rassicurazione:
sono con lei, intenzionata più che mai a combattere con la quarta arma della
scherma, la penna. Mi scaglio con tutte le mie forze contro un sistema ed una
mentalità affette da un male che pare incurabile.
E per
concludere credo che le università italiane rappresentino la vergogna del
nostro paese poiché non sono più culle della formazione, bensì incubatrici di
mafia.
Da “La
Gazzetta del Mezzogiorno”, 4 ottobre 2015, p. 20.
L'articolo fa parte della sezione "I cari estinti", ma anche della famigerata sezione "Università".
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Quanto ho scritto non è che un solletico per le istituzioni e rappresenta un blando conforto per chi vive il dolore della perdita. Vorrei essere in grado di fare di più, di scuotere impetuosamente un sistema marcio al quale in pochi hanno la forza di opporsi.
RispondiEliminaMentre tutti se la spassavano durante queste frenetiche vacanze di Natale, qualcuno piangeva.
RispondiEliminaTutta colpa di un sistema malato protetto dall'omertà di chi non si oppone.