Recensione: Giovanna Da
Molin, Famiglia e infanzia nella
società del passato (secc. XVIII–XIX), Cacucci Editore, Bari 2008, pp. 368.
Vi sono stati dei mutamenti nei processi di formazione della
famiglia, che l’hanno resa oggetto di ricerche multidisciplinari. Al suo
fianco, e di pari spessore scientifico, c’è l’infanzia. L’obiettivo che il
presente volume si pone è di ricostruire e indagare gli aspetti della vita
quotidiana delle popolazioni del passato. Per questo l’opera propone in
apertura un viaggio nella storiografia
della famiglia, campo privilegiato di ricerche di storia sociale. Si
ripercorreranno le fasi che hanno determinato lo sviluppo delle ricerche sulla
famiglia sottolineando l’importanza dei contributi portati in dote dal Cambridge
Group e da Peter Laslett, al quale si deve lo schema classificatorio sulle
tipologie familiari ancor oggi impiegato negli studi demografici. Lo studio
delle strutture familiari deve molto a una fonte redatta dai parroci ai fini
della somministrazione della comunione agli abitanti in prossimità del periodo
pasquale, lo Stato delle Anime. Oltre ad un’accurata analisi delle strutture
familiari in età moderna è possibile esaminare, pur considerando la difficoltà
nel reperire le fonti, le relazioni familiari e i rapporti di parentela: sono
gli atti notarili a svelare l’intricata trama dei sistemi di devoluzione del
patrimonio e di formazione della dote. I rapporti di parentela presentano un
ulteriore elemento rafforzativo e diverse sfumature. La parentela fittizia, in
particolar modo il padrinaggio, assume forme e significati differenti a seconda
dei gruppi sociali: rafforzamento, ascesa o l’instaurarsi di legami clientelari
che consentissero l’ascesa sociale. Una ricca bibliografia permette inoltre di
disegnare i quadri territoriali sulla famiglia italiana dell’Ottocento,
enucleando i fattori responsabili della struttura e della dimensione degli
aggregati domestici.
Gli Stati delle Anime, redatti con regolarità a partire dal
1614, sono carenti di una preziosa informazione, il mestiere, contenuta invece
in una fonte redatta una sola volta nel Settecento, il Catasto Onciario che ha
permesso di descrivere le principali dinamiche demografiche e sociali sulla Terra di Bari al tempo dei nostri avi. Si
ricalca lo schema tradizionale delle popolazioni di Ancien Régime: un regime demografico caratterizzato da un’elevata
natalità e da un’alta mortalità. Mancanza di igiene, medicine e adeguate
strutture sanitarie rendevano il parto un momento delicato sia per la vita
dell’infante che per quella della madre. Se il bambino sopravviveva, iniziavano
altre difficoltà: scarsa pulizia della casa materna, allattamento trascurato
per la necessità della madre di lavorare, svezzamento precoce con alimenti
inadatti, erano causa di carenze organiche e della morte di tanti bambini. Le donne
si sposavano quasi tutte in giovane età e per la mancanza di metodi
contraccettivi mettevano al mondo molti figli destinati in buona parte a morire
nel corso dell’infanzia.
L’opera ci restituisce una realtà nella quale il matrimonio
non è un atto d’amore, bensì una negoziazione tra famiglie il cui fulcro era
determinato dalla dote, parte del patrimonio familiare e parte del capitale
d’onore della famiglia, da conservare e, se possibile, accrescere evitando di
contrarre matrimoni con persone socialmente inferiori.
Le descrizioni degli ambienti operate dall’autrice
permettono al lettore di riuscire a guardarsi intorno immaginando con nitidezza
gli scenari abilmente rievocati: condizioni di arretratezza e scarsa igiene che
costituivano una grave minaccia per lo stato di salute.
Ancora una volta è il Catasto Onciario a consentire lo
studio di Famiglia, demografia e società
a San Severo. Devastato da un terremoto nel Seicento, il centro dauno
completò la sua ricostruzione nel Settecento. Grazie all’indicazione del
mestiere nella fonte si può osservare l’indice di vecchiaia con il suo andamento
differenziato per categoria socioprofessionale sullo sfondo di un contesto
quotidiano caratterizzato da condizioni di vita precarie.
L’elevata fecondità tipica del regime demografico naturale
trova la sua spiegazione nella percentuale elevatissima di donne sposate, un
fattore unito alla bassa età alle nozze.
Gran parte della popolazione era costituita da braccianti
poveri. Gli infanti che superavano il critico quinto anno di vita ne
trascorrevano il resto in abitazioni, costituite da un’unica stanza, il cui
arredamento era ridotto all’essenziale con feritoie al posto delle finestre,
alta percentuale di umidità, scarsa ventilazione, assenza di pavimento e
coabitazione con gli animali. Ma l’infanzia non è solo quella all’interno della
famiglia: Per miseria o per vergogna
vi è l’infanzia abbandonata in Italia
nell’età moderna unita a L’infanzia
orfana in Italia nell’Ottocento. Modelli assistenziali e aspetti demografici e
sociali. A partire da Philippe Ariès si scandaglia uno strato storico per
lungo tempo inesplorato, la storia dell’infanzia. Il bambino è spesso orfano o
indesiderato, fa il suo ingresso in un istituto assistenziale e diviene
figlio/a della Madonna per poi acquisire l’appellativo di figlio/a dello Stato
con le innovazioni napoleoniche e l’impianto dello stato civile. Durante il
governo francese emerse la premura di abolire l’usanza di dare il cognome
Esposito ai trovatelli. Sarebbe stato un marchio di infamia che li avrebbe
bollati a vita.
Lo studio del fenomeno dell’abbandono delinea una
distinzione di genere e apre uno spiraglio sul destino dei piccoli, la cui
esile vita risente dei luoghi dell’abbandono, a volte tra i più sperduti, cosa
che rende labile il confine tra abbandono e infanticidio. Tuttavia
l’istituzione della ruota degli esposti si tradusse in una possibilità di
sopravvivenza per i figli non voluti, nonché nella garanzia di tutela
dell’integrità e della reputazione delle fanciulle attrici del gesto. L’autrice
prende in esame i segni e i messaggi che vanno a incastonarsi nel ricco
linguaggio dell’abbandono. Risultano scissi i paradigmi assistenziali in base
al genere, ma avevano in comune l’apprendimento di un lavoro, la rigida
disciplina e la salda scansione delle attività quotidiane per evitare disordini
derivanti dall’inoperosità.
Chi si occupa dello studio del fenomeno dell’abbandono non
può tralasciare La Santa Casa
dell’Annunziata di Napoli, la più grande e importante istituzione per
trovatelli del Mezzogiorno d’Italia.
L’esame delle caratteristiche demografiche degli esposti
mostra un abbandono prevalentemente femminile in quanto i maschi rappresentavano
una potenziale forza lavoro. Il fenomeno registrava picchi maggiori in
corrispondenza dei mesi invernali e primaverili, nei quali si verificava un
incremento esponenziale delle difficoltà economiche, ed anche nei periodi di
carestie ed epidemie.
Troppo lungo è l’elenco delle malattie fatali per i bambini
e ancora misconosciute per l’epoca. Questo aspetto rende interessante la
lettura del capitolo Luigi Somma, un
medico all’Annunziata di Napoli a fine Ottocento. Descrisse l’atmosfera dei
brefotrofi come malsana e responsabile dell’insorgenza di molte malattie.
L’aria pura avrebbe giovato ai piccoli più di ogni altra medicina. Gli sbalzi
di temperatura erano causa di frequenti malanni. Lo svezzamento era precoce e
avveniva con alimenti poco adatti ai neonati. Si riporta la descrizione di una
zuppa, ideata da un medico, ottenuta stemperando in acqua e latte una miscela
di farina di frumento, orzo e alcune gocce di acqua e bicarbonato di potassio. Ma
l’assunzione della stessa generò nei bambini segni di deperimento organico e conseguente
morte.
Tutti i brefotrofi italiani lamentavano una penuria di buone
e sane balie, le quali avrebbero dovuto curare la proprie dieta affinché non
risultasse alterata la composizione del latte materno.
Le note del dottor Somma rimandano all’idea dell’abbigliamento
legato al grado di igiene del bambino, alla ginnastica con le sue doti
preventive e curative di molte malattie. Le segnalazioni del dottore
culminavano nell’auspicio che la realtà dei brefotrofi incoraggiasse il
progresso della puericultura e della pediatria nel nostro paese.
Al pari di un’arma carica e priva della sicura, il concetto
di attentato all’onore femminile era un allarme sempre vivo. Nel primo
trentennio dell’Ottocento per porre fine al disordine e alla licenziosità che
regnavano nel conservatorio, si raggruppò un certo numero di fanciulle in un
luogo detto alunnato. È così che si attua il passaggio Dal Conservatorio all’Alunnato. L’assistenza alle esposte
dell’Annunziata di Napoli. Norme precise regolavano il funzionamento del conservatorio.
Le ragazze vivevano in condizione di isolamento dal mondo esterno. Era vietato
l’accesso in istituto a esponenti di sesso maschile, anche religiosi, che
potevano “attentare all’onore” delle fanciulle. Le esposte che rientravano in
conservatorio dopo aver trascorso del tempo al di fuori dell’istituto venivano
confinate in alcuni locali, lontane dalle altre ragazze.
Venne attribuita enorme importanza al lavoro delle fanciulle
dell’alunnato. L’Annunziata non ostacolava la richiesta dell’esposta di
impiegarsi come serva, ma si impegnava a tutelarla nell’onore mediante la
stipula di un contratto con la famiglia presso la quale la fanciulla andava a servizio.
Tale contratto prevedeva la clausola dell’onore pericolante. Il pericolo di
incorrere in abusi sessuali era una peculiarità nell’istituzione del servizio.
Nel caso in cui l’onore femminile fosse stato compromesso, il padrone avrebbe
subito una severissima ammenda che avrebbe costituito una dote per la fanciulla,
consentendole un matrimonio di comodo con chi avesse considerato, e per l’epoca
era cosa usuale, la disponibilità economica più importante dell’onore. L’atteggiamento
protettivo dell’Annunziata usato nei confronti delle esposte che andavano a
servizio era riservato anche alle esposte, ancora più giovani, affidate a balia.
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