I videogiochi
sono nati da un esperimento per una tesi di dottorato negli anni ’50. Ci si
accorse che l’interesse degli utenti proviene dalla simulazione della realtà
trasponendo su uno schermo leggi fisiche (es. il moto). Sono stati elaborati
numerosi dispositivi elettronici (per i diversi giochi) che consentono
l’interazione con le immagini di uno schermo mediante periferiche come tastiera
e joystick. L’evoluzione dei dispositivi ha generato i videogame
tridimensionali capaci di andare ben oltre l’intrattenimento esercitando
prorompente attrazione. Il giocatore vi si immerge totalmente. La tecnologia diviene
esperienza di gioco (avventura, azione, ruolo, strategia, sport, simulazione).
Eminenti psicologi
affermano le proprietà benefiche dei videogiochi che stimolano il cervello
inducendo ad agire con immediatezza di ragionamento. I videogame incrementerebbero
le potenzialità intuitive, tecniche, tattiche e strategiche. Studi meno
enfatizzati lanciano, invece, un serio allarme circa la dipendenza e i deficit
di memoria ed apprendimento cagionati dall’interazione col virtuale. Gli
attuali infanti sono dei nativi digitali espertissimi. Si direbbe che le realtà
3D abbiano sviluppato in loro grandi capacità di immaginazione, ma un esempio
pratico confuta questa ipotesi: ho visto bambini alle prese con uno di quei
labirinti in cui con il tratteggio della penna si deve aiutare il topolino a
raggiungere il pezzo di formaggio dall’altra parte del labirinto senza valicare
le pareti. Il pargolo pare in preda a gravi disabilità e disegna linee rette
piuttosto che cercare un sentiero. Dov’è finita la capacità di elaborare
strategie o di immaginare l’ostacolo da sormontare e la tattica per raggiungere
l’obiettivo? E la capacità intuitiva che i videogiochi dovrebbero innescare
nelle fertili menti dei più giovani? La penna è un macigno in mano ai nostri
bambini e sembra di trascinarla sul foglio di carta simile ad una strada
accidentata.
La dipendenza
è un dato di fatto. Il potere che i videogiochi hanno di isolarci non denota
concentrazione, ma alienazione. Tuttavia c’è un modo per coniugare le opposte
tesi degli esperti. Tornare al gioco bidimensionale. Giocare con un partner
coetaneo o figura di riferimento. Avere dialogo durante il gioco per elaborare
strategie vincenti. Non dedicarvi troppo tempo e non renderlo un appuntamento
fisso. I videogame non sono una cura. Seguendo queste semplici regole si
evitano spiacevoli inconvenienti e si instaura un dialogo intergenerazionale.
Le ho elaborate da adolescente quando giocavo a Battle City Tank, un gioco
d’azione in cui il proprio carro armato (tank) deve abbattere una schiera di 20
carri armati nemici, difendere la base e raccogliere rapidamente dei bonus.
Ogni livello comporta delle difficoltà legate alla distribuzione di muretti,
fiumi o boscaglie.
Da “La
Gazzetta del Mezzogiorno”, 11 luglio 2015, p. 16.
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