Recensione: Vincenzo
Susca, Gioia Tragica. Le forme elementari della vita elettronica,
Lupetti Editore, Milano 2010, pp. 240.
Generalmente la
scelta del titolo deve essere ben ponderata. Esso deve incuriosire il lettore
senza svelare totalmente il contenuto. Deve essere creativo per catturare
l’attenzione di chi si accinge a leggere l’opera. Si tratta di un biglietto da
visita privilegiato, sia per una tesi di laurea, sia per un libro da destinare al
commercio. Gioia tragica dimostra di aver colto l’importanza di tale
scelta. Infatti il sintagma è un ossimoro che forse indica la possibilità che
la gioia sia perseguibile, ma a costo di qualche compromesso.
A contribuire
a spiegarlo c’è la prefazione di Marco Mancassola che non si è limitato a
introdurre l’opera, bensì ha composto un vero e proprio saggio introduttivo
includendovi numerose quanto attuali problematiche sociali e giovanili
intuendone le radici storiche.
In apertura
una citazione di Martin Heidegger che fa luce su un paradosso tipicamente
giovanile, quello di esserci, al mondo, e non riuscire a sentirlo. Una
possibile soluzione sarebbe quella di riuscire a lasciare traccia del proprio
passaggio dal momento che sembra ormai appartenere al passato il «Cogito ergo
sum» Cartesiano. Anche Ricoeur ha sostenuto che il Penso dunque sono, racchiudesse la tendenza dell’uomo a dubitare,
una tendenza che sfiora l’ostinatezza.
Per far fronte
alla sfida le generazioni precedenti adottavano la ribellione per condurre la
battaglia per l’esserci, oggi invece è la pratica della connessione che
permette di testimoniare l’essenza di un individuo, da questo deriva la gioia
di condurre una vita on-line, ma una gioia tragica perché ha il prezzo
della dipendenza dallo stato di connessione, che ha assunto il senso
dell’ingiunzione, dissolve la possibilità di salvaguardare la privacy e
l’integrità individuale e last but not least ci condanna
all’omologazione e dunque si torna alla rassegnazione dell’inautenticità.
Il testo fa
uso di esempi cinematografici per dimostrare quanto la relazione tra scienza e
potere sarebbe nulla se non si ammettesse l’umiltà come valore fondamentale per
abolire i pregiudizi la cui logica graffiante non permette di scalfire nemmeno
la verità più evidente. Si fa accenno all’alterità, al suo rispetto, alla capacità
di avvicinarsi empaticamente a ciò che è altro da noi. Segue l’esortazione a
provare a dare ascolto alla voce di quello spirito invisibile che prende il
nome di intuizione, ispirazione, creatività, perché la mente umana nella sua
intrinseca natura ha bisogno di accogliere l’altro da sé. Le forme più
sorprendenti del sapere spesso attecchiscono in quegli ambiti che la modernità
ha bandito o peggio ancora ha circoscritto.
L’opera si avvia
alla conclusione narrando la rottura dell’equilibrio esistente tra lavoro e non
lavoro che con successive declinazioni hanno assunto il volto di condotta buona
e lasciva. Quando il contesto urbano cominciò a far da magnete con l’esca
luccicante di un progresso da inseguire, l’uomo, impaurito da innumerevoli
novità sociali e da crescenti responsabilità, cominciò a contemplare il
concetto di evasione, più ampiamente premeditata per essere collocata
all’interno del ciclo produttivo della società dei consumi di massa. L’evasione
che fonde fuga e ricreazione, subì poi un’evoluzione che la portò a scindersi
in evasione temporanea legata ai cosiddetti interstizi metropolitani ed
evasione compatibile con la predizione ed il disimpegno un tempo considerate
periferiche, poi socialmente riconosciute.
Le ultime
battute sono rivolte nuovamente all’identità, in questo caso elettronica, con
riferimento al sottotitolo dell’opera. Il web è diventato un calderone di tanti
sé come effetto dell’ansia di esserci in virtù delle forme dell’apparire
nella vita elettronica. L’identità del terzo millennio rievoca le osservazioni di
Walter Benjamin sulla fotografia utilizzata per protrarre l’esistenza dei
defunti nelle dimore dei propri familiari. La contemporaneità permette all’identità
digitale di sopravvivere alla persona fisica.
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