Recensione:
Giovanna Da Molin (a cura di), Ritratti di famiglia e infanzia. Modelli
differenziali nella società del passato, Cacucci Editore, Bari 2011, pp.
205.
Breve e loquace nello stesso tempo. Si tratta del titolo di
un testo, in questo caso l’allusione immediata è al ritratto, quello strumento
personale o artistico che dona eternità a persone, oggetti, contesti. L’opera
ci permetterà di recuperare le istantanee della società del passato, anzi i
ritratti di famiglia e infanzia. Un ritratto possiede un’aura differente
rispetto alla fotografia. Ogni pennellata, ciascuna sfumatura e ciascun gioco
di luci e ombre sono ponderati dal pittore, attraversano il tempo e giungono
fino all’osservatore odierno che dovrà dimostrare pazienza e sensibilità per
poter cogliere ognuna di quelle tinte. Ci sono molti modi di osservare le
tracce del passato rispettando il criterio della contestualizzazione e
dell’avalutatività.
Famiglia e infanzia sono interconnessi. La famiglia
rappresenta la cellula più piccola della società, in genere è composta da
genitori e figli e dunque costituisce la culla dell’infanzia. La famiglia
odierna è caratterizzata da una fragilità, che spesso la interrompe, e da nuove
forme come le convivenze. Dal volume emerge un preciso senso ed un’immagine
della famiglia e dell’infanzia. Ma a quale tipo di infanzia siamo abituati? L’infante
odierno vive circondato da cure, affetti ed eccessi. Nel 2007 in Italia sono state
riproposte le ruote dei trovatelli, ma questa è una realtà che affonda le sue
radici nei secoli dell’età moderna. Il sentimento dell’infanzia nasce in
condizioni demografiche sfavorevoli caratterizzate da elevata natalità e
mortalità che falcidiava i piccoli nei primi anni di vita rendendo difficile il
raggiungimento del quinto anno d’età. La storia della famiglia ha subito
notevoli trasformazioni nel corso dei secoli, mutamenti di forma, struttura,
funzioni e valori, e gli scavi archivistici ci restituiscono una visione
parziale delle epoche passate.
Uno dei capitoli di storia moderna tra i più toccanti e,
paradossalmente, tra i più floridi per gli studiosi è quello dell’infanzia
abbandonata con le sue innumerevoli tracce. Un ambito altrimenti inesplorabile
se considerassimo il fanciullo all’interno del nucleo familiare. L’abbandono
dei bambini era un fenomeno dai connotati allarmanti dettato da condizioni di
miseria o dal disonore laddove le origini fossero state illegittime.
L’istituzione della ruota, posta all’esterno di brefotrofi e orfanotrofi, fu
l’unica possibilità di sopravvivenza per i figli non voluti che insieme
avrebbero condiviso lo svantaggio della censura delle proprie origini e una
vita insieme a numerosi orfani ed esposti.
Il saggio di Angelo Bianchi, Famiglie povere nella Milano della Restaurazione. Note su assistenza
agli orfani e condizione vedovile, propone un’analisi dei fascicoli
relativi all’infanzia e alla gioventù orfana di Milano alla scoperta di
giornate, mesi, anni di permanenza in istituto tra carriera scolastica e
avviamento al lavoro. È emerso che venivano ceduti all’orfanotrofio nella
maggior parte dei casi gli orfani di padre perché nel nucleo, venuta a mancare
la figura di riferimento reddituale, la situazione economica subiva un tracollo
con rotta verso l’indigenza.
Un tema attuale osservato in prospettiva storica è invece
quello trattato nel contributo Fanciulle
violate: i processi criminali a Bari nel XIX secolo. Il Tribunale, per
mezzo delle deposizioni nei verbali dei processi, si erge a luogo in cui
persone di ogni ceto hanno potuto imprimere nella storia parte delle loro
azioni quotidiane. I delicta carnis,
ovvero i reati sessuali dovevano però fronteggiare l’inossidabile paratia di
omertà comprensibile se contestualizzata: le vicende di abusi si collocano
sullo sfondo di una società incentrata sulla tutela dell’onore e sulla
verginità prematrimoniale. Dall’analisi dei processi istruiti presso la Corte
di Assise di Bari si evincerà il ruolo dell’infanzia nella società ottocentesca
unita ai rapporti interpersonali tra familiari, coniugi e alle possibili
reazioni popolari alla notizia di uno stupro. Spesso il carnefice vive nella
stessa abitazione della vittima, dunque la violenza diviene domestica e
talvolta sconfina nell’uxoricidio con il medesimo denominatore della società attuale:
l’inesistenza di distinzioni culturali, economiche o anagrafiche.
Ad allestire il teatro di un abuso minorile erano proprio le
condizioni di vita infantile, sempre tanto vulnerabile alla premeditazione o al
raptus di un malintenzionato.
Rossella Del Prete esamina l’articolazione socio–professionale della famiglia dei musicisti a
Napoli in età moderna perché il nucleo familiare di appartenenza ha un
preciso rilievo nella formazione del musicista. Sorse l’educazione musicale
volta ad inserirsi nella formazione dell’uomo comune dato che la richiesta di
musica coinvolse anche gli usi profani ed il mondo cristiano. Ma all’infanzia
abbandonata nei conservatori toccò un aspetto poco gratificante dell’istruzione
musicale: è il caso degli eunuchi, castrati in età prepuberale al fine di
sfruttare le particolari doti vocali dei bambini conservandone il timbro dolce
ed acuto.
Annamaria de Pinto presenta Reclusione e malattia nel Real Ospizio di Giovinazzo nell’Ottocento
sottolineando le precarie condizioni in cui versavano i reclusi negli istituti
assistenziali del Regno di Napoli. Alla premura pedagogica volta a formare
buoni e onesti cittadini si contrappone un’alimentazione scarsa e inadeguata.
Si pensi che una bevanda usuale per l’epoca era il vino come surrogato
dell’acqua in genere non potabile. Scarsa l’igiene, per nulla arieggiati e
luminosi gli ambienti quali il dormitorio: questi sono alcuni dei fattori causa
dell’insorgenza di malattie letali.
L’inserimento attivo nel mondo del lavoro in età moderna ha
da sempre costituito una premura finalizzata a non vanificare gli sforzi
dell’istituto assistenziale che si occupava dei piccoli orfani ed esposti. Le
macchine assistenziali avevano il compito di indirizzare la frangia più fragile
dell’infanzia verso un destino sociale proteso al miglioramento. Lo dimostra
Maria Federighi nel saggio Dentro e fuori
le mura. Assistenza e formazione al lavoro dei fanciulli nella Pia Casa di
Beneficenza di Lucca nell’Ottocento. Il lavoro si prospetta come strumento
disciplinare e di controllo sociale e di prevenzione di episodi di devianza.
L’opera di scavo archivistico ci regala documenti che hanno il pregio di
suscitare commozione in chi li studia, come si desume dalla storia di un orfano
di ambo i genitori, allevato in istituto, avviato al lavoro e divenuto
benestante e che all’apice della sua carriera professionale effettua una
donazione corredata da una lettera in cui esprime gratitudine verso l’istituto
che gli ha fornito aiuto nel momento di estremo bisogno.
Carla Ge Rondi delinea la Vita in famiglia in due comunità del territorio pavese agli inizi
dell’Ottocento, Voghera e Vigevano che ricalcano il modello familiare
presente nella penisola: famiglia nucleare composta da genitori e figli.
Marcata è la presenza di vedove rispetto ai vedovi a Voghera, mentre opposto è
il trend di Vigevano. L’autrice si interroga sui fattori che spieghino tale
differenza come il ritorno di una vedova presso la famiglia d’origine e la
propensione o meno a contrarre le seconde nozze da parte dei vedovi di
Vigevano.
Silvana Raffaele pizzica le sottili corde delle Strategie matrimoniali e patrimoniali.
Dinamiche familiari nella Sicilia moderna: monaci, suore, cavalieri e
«maritati». Si tratta di famiglie aristocratiche le cui azioni risentono
delle formule riconducibili alla gestione del potere e alla conservazione del
patrimonio. La successione ereditaria seguiva pedissequamente l’ordine di
genitura in linea maschile. Spesso le figlie, per non disperdere il patrimonio,
venivano destinate alla monacazione priva di vocazione, ma in altri casi almeno
la primogenita poteva maritarsi, previa concessione della dote, imbastendo così
dei legami di parentela con altre famiglie.
Flores Reggiani illustra La
costruzione dell’identità sociale degli esposti bollati come malavitosi in
potenza. Eppure la loro vita in ospizio era orientata a una rigida disciplina
per la quale l’inosservanza di una norma prevedeva una punizione severa.
Raffaella Salvemini spiega La gestione delle Annunziate in età moderna: il caso di Aversa e
Cosenza. A fronte di rendite scarse si prospettava una notevole difficoltà
nella gestione delle opere pie spesso anticamere della morte per i piccoli
trovatelli. La ripercussione immediata riguarda la condizione dei projetti.
Numerosi sono i casi in cui mancano i registri relativi alla gestione degli
istituti, si tratta di una situazione frutto di negligenza che è stata rilevata
dalle inchieste del tempo e negativamente giudicata da ispettori incaricati di
stilare delle relazioni sugli esposti.
In un’indagine multiscopo dell’Istat sugli aspetti della
vita quotidiana, datata 2010, ho constatato che la disoccupazione rappresenta uno dei maggiori problemi nel novero di
quelli percepiti dai cittadini italiani. La disoccupazione equivale all’assenza
di lavoro.
Dal volume ho potuto desumere l’accezione che il lavoro
aveva nei secoli dell’età moderna.
Se
dovessi attribuire un aggettivo a lavoro,
sceglierei precoce. Specialmente
nelle famiglie di addetti all’agricoltura i figli maschi erano considerati
forza–lavoro.
Prendendo
in esame gli studi condotti sugli istituti assistenziali emerge che:
-
l’avviamento professionale era
una premura al fine di non vanificare
gli sforzi dell’istituto;
-
l’occupazione manuale era uno
strumento disciplinare, scandiva le
giornate bandendo i possibili disordini legati all’inoperosità (all’interno
dell’istituto);
-
il lavoro era uno strumento
di controllo sociale proteso a
evitare manifestazioni di devianza e di marginalità (nella società);
-
l’esercizio di una professione fin
dalla giovane età rappresentava un’opportunità di socializzazione al di fuori dell’istituto. Ad esempio avveniva
un’integrazione del giovane con il nucleo familiare del datore;
-
il lavoro rappresentava
altresì un elemento che rendeva possibile un’elevata realizzazione personale come testimoniato dalla lettera di
ringraziamento dell’industriale ex ricoverato nella Pia Casa di Beneficenza di
Lucca, Umberto Asciutti, orfano di ambo i genitori (pp. 108–109);
-
vi
sono anche casi in cui il lavoro
poteva tramutarsi in anticamera della
morte come recita la descrizione della disgrazia avvenuta all’orfano di
padre Stefano Francescani, deceduto all’età di 14 anni per essere caduto, nella
bottega del fabbro ferraio, su di un ferro che gli ha trapassato la mascella
esponendolo al tetano (pp. 105–106). Questo episodio si colloca tra le pagine
più toccanti dell’infanzia moderna: quella abbandonata e quella orfana.
La
recensione è apparsa su «L’Aquilone», Rivista di letteratura giovanile, anno
2012, N. 7, Mario Adda Editore, Bari 2012, pp. 74–78.
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