E
il naufragar m’è dolce nell’autoreferenzialità
«Non è
possibile non comunicare». È l’assunto elaborato da Paul Watzlawick, eminente
esponente della Scuola di Palo Alto, in California. In effetti la comunicazione
è un bisogno improcrastinabile degli individui così come la comunicazione non
verbale occupa nelle nostre vite una percentuale maggiore rispetto a quella
verbale.
Oggi però
stiamo assistendo ad un’alterazione di questo bisogno umano. Si parla troppo e si
ascolta poco e male. Si scrive troppo e non si legge per niente. Come siamo
approdati ad una simile solitudine? Guardandoci intorno possiamo scoprire gli
elementi determinanti di questa nuova realtà. La tecnologia, che tanto
progredisce e tante opportunità di impiego crea, tende ad isolarci.
Completamente soli al cospetto del monitor, chattiamo nella completa illusione
che sia una vera conversazione. Il web 2.0 consente di essere protagonisti
della rete inserendovi contenuti che desideriamo raccolgano migliaia di
visualizzazioni. L’editoria odierna ha cambiato la sua mission orientandola
verso la realizzazione di introiti. Le case editrici hanno captato l’esigenza
dei singoli di veder pubblicato almeno un libro nella propria vita ed han
deciso di rispondere a tale desiderio mediante pubblicazioni a titolo oneroso.
Si pubblica qualsiasi libro perché ciascuno desidera affermare «ho scritto un
libro!». La speculazione del mondo editoriale ha coniato persino il termine
self publishing, sminuendo per sempre l’importanza dei contenuti dei libri ed
il valore della lettura. Si viene a creare una chiusura che ben si coniuga con
l’autoreferenzialità (si tratta del far riferimento solo a se stessi).
Il danno
maggiore lo ha causato la televisione con l’overdose di spot pubblicitari,
l’abbondanza di informazioni e l’inondazione di marketing che non fanno altro
che relegarci nella condizione di spettatori di massa e non più partecipi delle
esperienze dirette. Il presunto dono offerto dall’evoluzione dei media e dal
progresso della tecnologia ha avuto un unico effetto, un effetto proibitivo.
E allora viene
spontaneo fare eco all’ultimo verso de L’infinito,
l’idillio leopardiano che evoca il mare dell’infinità spaziale e temporale in
cui è dolce perdersi, venir meno, analogamente al lasciarsi sopraffare dal mare
in un naufragio. Ed è con un flebile sospiro che potremmo dire… e il naufragar
m’è dolce nell’autoreferenzialità.
Da “La
Gazzetta del Mezzogiorno”, 15 marzo 2015, p. 16.
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