Fratelli
d’Italia, non solo inno va recuperata l’identità collettiva
Chi si occupa
di etica ritiene che abbiamo raggiunto uno stadio avanzato di individualismo ed
egoismo. Di conseguenza l’espressione «Fratelli d’Italia» si è ridotta a parola
d’uso, priva di significatività. Questo non giustifica i fischi contro l’Inno
di Mameli, un episodio che qualche settimana fa ha allibito il presidente del
Senato Schifani e turbato la cantante Arisa che con lo sguardo esterrefatto a
portato a termine l’inno. L’esecuzione dell’inno nazionale dovrebbe essere un
momento di unione solidale e non di sconvolgente inciviltà. Cosa ci è accaduto?
Prima ne ignoravamo il testo e ora lo accogliamo con dei fischi, segno evidente
che il senso delle parole non ci ha lambiti. Il nostro problema è l’aver
smarrito memoria e identità collettiva, due elementi che affondano le radici in
una materia che non ci piace: la storia. «Il canto degli italiani» o Inno di
Mameli fu scritto da Goffredo Mameli, poeta e patriota italiano, nel 1847. Fu
composto nel periodo del Risorgimento e ne divenne il simbolo. Ci troviamo nel
contesto rivoluzionario che condusse alla conquista dell’indipendenza politica
e dell’unificazione dell’Italia che doveva letteralmente risorgere. Durante le Cinque
giornate di Milano, nel 1848, ciò che animò gli insorti durante i durissimi
combattimenti per l’indipendenza fu proprio l’inno. «Dell’elmo di Scipio s’è
cinta la testa» è un richiamo alla romanità simboleggiata dall’elmo dell’eroico
generale romano Publio Cornelio Scipione, detto l’Africano. «Dov’è la vittoria?
Le porga la chioma, che schiava di Roma Iddio la creò» fa riferimento all’uso
di tagliare i capelli alle schiave e in senso figurato a chi, vittorioso, si consacra
alla capitale. «Stringiamoci a coorte, siam pronti alla morte» esprime il senso
del sacrificio della propria vita per la patria, all’interno della coorte, la
legione dell’esercito romano. L’inno che cantiamo non è completo: c’è una parte
che potrebbe innescare una carica propulsiva nel nostro orgoglio: «Noi siamo da
secoli calpesti e derisi, perché non siam popolo, perché siam divisi». È vero,
fummo apostrofati dall’austriaco Metternich come «espressione geografica». La
nostra reputazione odierna non è migliorata, quindi «Raccolgaci un’unica
bandiera, una speme; di fonderci insieme già l’ora sonò».
Se il percorso
storico è troppo ripido, affidiamoci alle parole di G. V. Paolozzi: «lo sport è
sinonimo di civiltà perché non esalta la violenza ma la forza sana e non divide
i popoli ma li affratella».
Da “La
Gazzetta del Mezzogiorno”, 28 giugno 2012, p. 30.
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