Recensione: Claudia
Attimonelli – Antonella Giannone, Underground zone. Dandy, Punk, Beautiful People, Caratteri Mobili, Bari 2011,
pp. 119.
Un fotogramma
dagli anni Settanta ci illustra l’esempio di come i giovani si siano imposti
come figura sociale. Scena sarà il termine chiave per comprendere quanto
ricco sia il repertorio fotografico di Paul Zone; l’originalità della fuga
verso la Germania Ovest ai tempi del Muro senza scavalcarlo, ma attuando una fuga
nel sottosuolo della creatività e della fantasia, ordita dai giovani
berlinesi, la cui dissidenza sotterranea giocata sullo stile, li rendeva allo
stesso tempo fuggitivi e «liberi entro i confini»; e perchè un rock club di
Manhattan, il CBGB, fosse considerato un rifugio, un laboratorio creativo, una
seconda casa.
Al lettore
viene offerta l’opportunità di cogliere l’essenza delle sottoculture immergendosi
nella scena intesa come comunità di individui intorno ad un corpus
di segni, pratiche e linguaggi. È mutevole poiché risente della varietà di
gente che la compone costituendo un segmento sociale che si differenzia dalla
macrocultura di cui fa parte mediante stili di vita, sistemi di valori e
credenze e modi di vestire simbolici di cui però il commercio si è abilmente
impossessato.
Glam e Punk hanno
la musica come veicolo espressivo capace di influenzare il look, incrementando
così il potere comunicativo dell’immagine.
Dalla
ribellione contro una società che non tardò a dimostrarsi ostile verso la
categoria dei giovani nacque il punk con il suo sound apocalittico e un look
disturbante dato da un abbigliamento all’insegna dell’antistile. Negli ‘anni di
piombo’ si lascia al corpo e agli abiti il compito di emanare il dolore di un
dilagante decadimento morale.
Pur essendo
agli antipodi, Dandy e Punk hanno un denominatore comune: se Barthes definisce
dandy l’individuo che dopo la Rivoluzione Francese vuole mantenere i segni
della distinzione sociale attraverso quella categoria estetica che meglio può
manifestare le differenze, ovvero il dettaglio, anche il Punk lo ricerca, ma
all’interno di una guerriglia semiotica dell’antistile e del trasandato.
L’idea di
eleganza e di ostentazione dell’erotico tipico del Glam è meglio comprensibile
se si pensa alla cantante dei Blondie, Debbie Harry scelta per interpretare il
ruolo di Nichi nel film Videodrome perché in grado di emanare edonismo e
autolesionismo che sarebbero confluite nel cyberpunk contemplato da
Cronenberg.
Solo il medium
fotografico ha potuto permettere che restasse una traccia della scena musicale.
Solo l’obiettivo ha fissato icasticamente l’incontro tra arte e storia. Solo la
produzione e la conservazione di materiali iconografici giunti fino ai giorni
nostri ha consentito che l’immagine divenisse essa stessa scena.
Il repertorio
iconografico custodito da Paul Zone è l’esempio dell’impiego della fotografia come
mezzo di narrazione e fedele calco della scena musicale di quegli anni.
Nell’intervista rilasciata da Paul Zone, egli dichiara quanto fosse stato fortunato
ad avere dei fratelli più grandi che lo introdussero, ad appena quattordici
anni, nei club in cui cominciò a stabilire rapporti di amicizia con persone che
presto sarebbero balzate agli onori delle cronache. Li fotografò quando ancora
non erano famosi, quanto ancora non si era edificata la loro iconografia. La
quantità di foto che ritraggono Debbie Harry testimonia inoltre il profondo
legame di amicizia che li lega. Quegli scatti spontanei, amatoriali, ingenui,
privi di professionalità o pretese artistiche, hanno rivelato le loro
potenzialità documentaristiche poiché hanno immortalato l’aura, l’unicità e
l’autenticità di quei personaggi nell’irripetibilità della scena che hanno
costellato.
Nessuna foto
artistica è mai riuscita a trasmettere il medesimo fascino.
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