Recensione: Ester Fiore de Feo, Colette e il giornalismo letterario del
Novecento, Schena Editore, Fasano 2008, pp. 307.
Da tempo
attenta ad esplorare il mondo degli autori francesi del Novecento alla scoperta
di ciò che li rende autentici, Ester Fiore de Feo percorre tutta la produzione
di Colette, partendo dall’esperienza letteraria fino all’attività giornalistica
di una donna anacronisticamente audace che sfida paure e incomprensioni,
difficoltà ed emarginazioni e «la cui personalità e l’impegno letterario
dovevano diventare storicamente imprescindibili nell’emancipazione del costume
e della letteratura del Novecento».
L’opera spiega
le potenzialità che emergono dalla commistione dei generi letterario e giornalistico
che dà vita al ‘giornalismo letterario’ attuale, completo, poliedrico, caratterizzato
da qualità affabulatorie.
La prima parte
del testo è uno spaccato della vita personale di Colette, dall’infanzia alla
maternità, alla maturità, attraverso gli aspetti di una intensa vita
sentimentale e professionale. Sono proprio essi, nella loro varietà e
peculiarità, a comporre quella cronologia ricca e dettagliata, propedeutica
alla parte che accoglie l’Appendice. In questa sezione l’autrice raccoglierà
numerosi testi giornalistici: cronache musicali, giudiziarie, di guerra,
teatrali e cinematografiche, di moda, costume e società, tutta una varietà di
scritti che sapranno rivelare la ricchezza di risorse di questa donna, Colette,
impegnata totalmente nella sua attività professionale.
Colette esordisce
curando la rubrica di critica musicale del quotidiano «Gil Blas», che le
permette di cogliere tutti gli insegnamenti che le prime esperienze
giornalistiche le offrono. Oltre al talento letterario, emerge molto presto una
delle sue doti principali: la capacità di ritrarre con la penna i profili delle
persone note. Cronista del giornale «Le Matin», proprio nel periodo in cui la
testata stava realizzando una scalata concorrenziale a livello nazionale,
emerge tra i colleghi per spirito di innovazione, scrittura scorrevole, pronta
ad approfondire temi sociali. Per tale serietà professionale, riceverà le più
illustri onorificenze, tra cui la presidenza dell’Académie Goncourt, il conferimento del titolo di Cavaliere dell’Ordine della Legion d’Onore,
l’ingresso all’Académie Royale de Langue
et Littérature Française de Belgique.
L’autrice si
sofferma sull’esigenza primaria di Colette, la scrittura, con cui esprime desideri,
emozioni e sensazioni. La capacità di avvicinarsi
alle piccole cose quotidiane e naturali le viene dall’infanzia, trascorsa nel
giardino ‘incantato’ della casa di Saint-Sauveur-en-Puisaye, in Borgogna, sotto
la guida della saggezza materna. Qui Colette ha osservato il mondo animale e
vegetale, ha imparato ad ascoltare la voce della natura, si è fatta sensibile
allo spettacolo del mondo, laddove spesso gli esseri umani rimangono
indifferenti. Scrivere la riconduce alla magia della fanciullezza, al ricordo
delle sensazioni provate in un periodo cronologicamente lontano, ma sempre presente
nel suo animo.
Tuttavia gli
insegnamenti e le esperienze che hanno contribuito a forgiarla, conferendole un
forte spirito di adattamento, non l’hanno resa immune dai problemi
sentimentali: veri e propri tormenti affettivi, dinanzi ai quali Colette ha
dimostrato di essere in grado «di ricominciare, proprio in quegli interminabili
periodi in cui la vita le mostrava i lati peggiori». La brillante ascesa
professionale è dunque inversamente proporzionale alla sfera sentimentale. Ma
la scrittura, con l’intrinseca funzione pedagogica e terapeutica, costituisce
la sua salvazione.
L’autrice
delinea così una personalità per la quale le vicissitudini si fanno nuova linfa,
che permette alla donna di proseguire
il proprio percorso professionale, nonostante le devastazioni della prima e
della seconda Guerra Mondiale. È proprio il contatto con la realtà straziante
del fronte e del suo crudo realismo che diviene per lei occasione di
riflessioni e rappresentazioni di eccezionale intensità emotiva.
La seconda
parte dell’opera ha il pregio di illustrare quanto la presenza di Colette in
redazione fosse insostituibile per via del vigore che era capace di conferire
agli articoli. Se l’usuale prassi seguita nella stesura degli articoli
giornalistici li rendeva freddi e distaccati rispetto ai lettori, la
connotazione letteraria che Colette sapeva infondere, ne donava uno slancio
entusiasmante. «Era come se per ogni argomento trattato non vi fosse solo
l’avvenimento da relazionare tout court,
ma entrassero in gioco ogni volta fattori più determinanti, legati alla sua
emotività, alle sue passioni, all’immenso bagaglio di esperienze e di
conoscenze che custodiva dentro di sé».
Nell’Appendice
la studiosa propone una vasta gamma di articoli Colettiani che consentono ai lettori più curiosi di ‘incontrare’
una Colette «ora riflessiva nelle relazioni sui processi criminali, seducente e
moderna nelle vive cronache sulla moda, aperta e innovativa nelle recensioni
teatrali o cinematografiche, emotiva e passionale nei reportages dal fronte di guerra».
È posta in
rilievo anche la possibilità di una lettura di impostazione psicoanalitica alla
base dei casi giudiziari con intuizioni di sorprendente valore. Colette seguiva
le udienze dei casi più importanti dai banchi di tribunale riservati alla
stampa, non senza aver letto i verbali degli interrogatori dei singoli
imputati. La redazione del quotidiano «Le Matin» incaricò lei di redigere le
impressioni delle udienze, per l’acuto spirito di osservazione di cui era
dotata. Hanno la sua firma gli articoli relativi ai procedimenti contro i
complici della banda á Bonnot, il
processo Stavinky, l’affaire Weidmann, Marie Beker empoisonneuse, il processo Guillotin, il processo Moulay Hassem. I commenti nelle cause ai
criminali, definiti monstres da
Colette, rivelano profili ritratti con intensità e finezza psicologica da cui
emerge una singolare capacità di narrare i fatti di cronaca in modo originale, senza
deformarne la realtà e soprattutto restando fedele alla verità. La grande oggettività
non le impone rigidità descrittiva, anzi, rifacendosi alla sua passione per
l’entomologia, quasi lente di ingrandimento, diventa una visione capace di inquadrare
l’infinitamente piccolo. L’autrice si ferma sugli aspetti più interessanti
dell’opera di Colette, scrittrice e giornalista certamente fuori dall’ordinario,
ma pur sempre una donna, pronta a cogliere ciò che dai meandri della psiche
umana non emerge, gli aspetti più profondi che spesso restano ignoti. In aula
scruta atteggiamenti, sguardi, portamenti, espressioni, rifacendosi agli studi
del fondatore dell’antropologia criminale Lombroso che, esaminando le foto
degli schedari della polizia, eseguiva con perizia un’analisi di quegli strati della
popolazione che esprimevano malessere e cadevano in una inevitabile devianza.
L’autrice, con
le sue ricerche, sa rendere il lettore partecipe degli eventi, coinvolgendolo
in riflessioni sulle condizioni sociali, di genere o economiche, in un periodo
che vede inserirsi le donne all’interno di dinamiche nuove, mediatiche e di
potere, destinate a cambiare regole e
comportamenti all’interno della società.
La recensione è apparsa su «La Nuova Ricerca»,
Rivista del Dipartimento di Linguistica, Letteratura e Filologia Moderna, anno
XIX, N. 19, Fabrizio Serra Editore, Pisa–Roma 2010, pp. 280–281.
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