Pochi
ricordano che nel 1984 Italo Calvino fu invitato dalla Harvard University di
Cambridge, nel Massachusetts, a tenere un ciclo di sei conferenze a tema libero
che presero il nome di Lezioni americane. Scelse di illustrare alcuni
valori della letteratura che riteneva di dover salvare: leggerezza, rapidità,
esattezza, visibilità, molteplicità e consistenza o coerenza. Li chiamò Six
memos for the next millennium (Sei buoni propositi per il prossimo
millennio). L’autore sosteneva che la padronanza della propria lingua
ricoprisse un profondo valore morale e sociale, essendo essa l’unica arma
capace di contrastare la perdita di forma che ha infettato il mondo, rendendo
insensata e amorfa la vita degli individui, nonché unico strumento che sappia
rendere in modo nitido e incisivo le sfumature del pensiero e
dell’immaginazione.
Calvino
invitava alla precisione cui avrebbe fatto seguito la disinvoltura, la capacità
di elaborare discorsi complessi ed articolati senza incorrere in
contraddizioni. Esaltava il valore dell’esattezza, contrapposto alla tendenza
all’approssimazione che caratterizza la società contemporanea.
Concluso il
ciclo di conferenze, emerse l’idea del lavoro dello scrittore come sfida alla
degradazione della società con le armi specifiche della lingua.
Tale assunto,
pur risalendo al 1984, si rivela attuale, anzi avveniristico, perché sembra che
Calvino abbia predetto l’immaturità linguistica dei giovani, così legati ai
fattismi “diciamo” e “praticamente” che si diffondono come la peste, ed
esattamente come la peste, non fanno discriminazioni di classe o livello di
istruzione. Dai giornalisti televisivi ai fisici del Cern di Ginevra, numerose
anime sono affette da questo virus.
Il “diciamo” è
socievole: si accompagna al “praticamente”, al “grossomodo”, al “quant’altro” e
al “cioè”, ricorrente come un incubo.
Che “direbbe”
Calvino di questo intercalare-pleonasmo, indice di una debolezza linguistica
che ogni giorno lambisce nuovi individui e non li abbandona più.
E poi, lo
“diciamo” sempre, ma ce ne accorgiamo?
Per prima cosa
è presuntuoso usare il plurale se il soggetto parlante non si fa portavoce di
un gruppo e poi, si tratta di un evidente segnale di perdita di controllo sul
proprio linguaggio.
Ma il fenomeno
peggiore cui mi è capitato di assistere è il contagio: i discenti ne fanno
largo uso e i luminari ne seguono l’esempio.
Dunque … non
diciamo(lo) a Calvino.
Da “La
Gazzetta del Mezzogiorno”, 25 giugno 2010, p. 22.
Calvino ha vinto la schedina linguistica con un pronostico del 1984.
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