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martedì 23 settembre 2014

Non credo più in questa società

Fu la prima volta che scrissi ai media
     Mi chiamo Silvana Calabrese laureanda in Scienze della Comunicazione presso l’Università degli Studi di Bari. Le scrivo per esprimere il mio profondo disappunto in merito a diversi argomenti.
     Ciò che mi spinge a scriverLe è la profonda inquietudine che mi sovrasta di recente. Essa riguarda il mio futuro professionale sul quale aleggia il buio più pesto. Ma riflettendo sono giunta alla conclusione che la disoccupazione sia il male minore nella nostra società. Qualunque iniziativa sana e costruttiva venga in mente ad un giovane incontra inevitabilmente degli insormontabili ostacoli. E non vi è sdegno maggiore che la natura stessa di tali ostacoli. Ho poco più di ventidue anni e credo di essere troppo giovane per aver ormai perso fede e speranza e non parlo solo della fede in Dio, che biasimo per averci donato il libero arbitrio, la decisione più infelice che potesse prendere perché nessun uomo è in grado di autogestirsi. Non credo più nella società in cui vivo.
     Farò qualche esempio traendo spunto per prima cosa dalla mia stessa vita. Sono autrice di un libro, un saggio scientifico nella cui scrittura ho creduto molto. Ma far decollare la mia opera è stato un inferno. Le case editrici a cui mi sono rivolta hanno apprezzato molto il contenuto, il problema era la mia mancanza di notorietà. Durante le accese discussioni con gli editori è stato tirato in causa un nome: Franzoni. Mi è stato spiegato che la società preferirebbe leggere un suo libro per via dell’attrazione suscitata dai fatti cruenti di cronaca nera anche se legati al brutale assassinio di un bambino.
     Sui gusti non si dovrebbe discutere ma c’è un limite a tutto. Negli anni sono andati persi alcuni valori che ci rendevano esseri umani ora invece abbiamo conservato solo le sembianze umane. Nel momento stesso in cui mi sentivo frustrata per il mio libro mi colpì una notizia: «Investì quattro ragazzi: ora è una star. 50mila € per scrivere libro. È quanto dovrebbe percepire Marco Ahmetovic, il rom ventiduenne condannato a 6 anni e mezzo in primo grado per la strage di Appignano del Tronto, dove morirono investiti dal furgone del nomade ubriaco quattro giovanissimi del piccolo centro alle porte di Ascoli Piceno».
     Non mi pare il caso che io commenti la notizia. Ci avete disarcionati. Ogni azione ha le sue conseguenze, il peggio deve ancora venire, ma siamo ancora in tempo per un’inversione di rotta. Non è la società che cambia, ma gli individui che la compongono.
     Dubito fortemente di ricevere una risposta, le persone non si smentiscono mai.

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